Pittore, vive e lavora a Torino. Autodidatta, inizia dipingendo paesaggi marini, ma ben presto l’impatto con
l’informale è fortissimo. L’impressione che si ha osservando i suoi quadri è di una fusione di forme e di
toni caldi che portano la sua pittura a inserirsi con personalità nel mondo dell’arte contemporanea; la sua
istintività traspare da ogni sua tela. Oltre allo studio e all’approfondimento della pittura informale/astratta,
ha frequentato in passato la Scuola d’Arte Impressionista di Settimo Torinese. Ha preso parte a collettive e
numerose rassegne di pittura ottenendo ottimi consensi.
Il critico d’arte Marco Palamidessi, di lui dice “L’arte di Luigi Rubino è una festa per gli occhi. L’artista dipinge
di getto, ma senza tralasciare l’idea originaria, soprattutto tenendo bene in vista il punto d’arrivo. L’impulso
non lo acceca mai, gli permette un fare istintivo ma controllato, sicuro, che non chiede sottomissione ma
un rafforzamento nei gesti e nelle intenzioni. Il dipingere di pancia, seguendo i moti interni ma senza sopperire, non gli fa perdere il controllo dell’obiettivo finale durante tutta la durata della genesi artistica. Pur vivendo a pieni polmoni l’atto pittorico, non abbandona il concetto che sottende la creazione: l’impeto ha
solo dei margini per farlo deviare da ciò che lui vuole. Dal lampo dell’idea primordiale alla tela messa ad
asciugare c’è quel salto dentro al buio che si chiama pittura. Un salto che Luigi compie con l’aiuto sì del
controllo razionale, ma che paradossalmente gli permette di vivere appieno l’emozione di ogni gesto guidato sia dall’intelletto che dal sentimento.
L’anima creatrice è costantemente rivolta sia all’idea primigenia che alla pura «ragione gestuale», vero motore di ogni sua creatura artistica.
Qui tutto è veloce: c’è solo un lampo che separa l’intuizione dallo scattare della mano. Opere dove rumoreggia la totale assenza umana:
stati d’animo, geografie interne, sensazioni che l’artista non ha ancora provato; o forse sì, ma solo nel momento in cui la mano e i colori, assunta la magica pelle dell’Arte, si mettono a danzare. Fra l’idea e l’atto fisico che la disvela, un unico fulmine, un’unica velocità, un’unica legge: affinché l’idea non si disperda nei
gesti che generano il viaggio della pittura. Si sa come, da dove si parte, ma non si sa mai fino in fondo dove si arriverà, quando si fa un’arte del genere. Ma Luigi non si perde in questo viaggio fantastico: lo ama in ogni anfratto contemplato e intensamente voluto. Lo immagino dipingere coi gesti caricati a colore, quel colore con cui è sublime sporcarsi le mani. Perché è sempre la mano che accende e spegne ogni creazione.
Perché è l’anima che nel colore ne orchestra e guida i movimenti. Dipingere è sempre un’avventura che
prima di esser fatta sulla tela, è fatta nell’anima. E il pittore più indipendente è quello che sbeffeggia la
tela che il critico gli porge. Che gli offre comunque per una pittura fortemente astratta, che nega la figura
in sé, non soltanto quella umana. Perché questo è tutto ciò che è nell’uomo: l’astrattismo puro ha sempre
dipinto – pur negandolo alla vista – l’uomo di dentro, nelle sue essenze cristalline, nei suoi cosmi, nelle sue
caverne, nei suoi anfratti, nelle sue stanze più intimamente segrete. Le forze, le sensazioni umane che si
sprigionano nei tempi del gesto, nel segno fulmineo violento e liberatorio. Quando non ci si può trattenere,
o si corre o si fa un quadro. Le fibrillazioni, gli impulsi elettrici, le scosse cromatiche: la sua mano non è un
semplice prolungamento dell’anima, è un sismografo caricato a colore pronto a reagire ai tumulti tellurici,
alle zolle che franano giù come in un baratro senza fondo. Luigi sente il bisogno di espansioni dinamiche,
degli scatti repentini di una mano che orchestra l’idea: è il suo vitalismo infrenabile che glielo impone, e il
rifiuto del registro figurale scaturisce dalla volontà di far corrispondere una condizione interiore al variare
sanguigno dei segni tracciati sulla tela. Dipingere è mettersi nel viaggio delle proprie mani, nei propri istinti,
nei propri paesaggi mentali. È sbattersi fra le onde dell’impeto, e nonostante tutto arrivare, rimanere in piedi nel cuore della tempesta”.